Le cento opere grafiche di Giovanni Battista Piranesi (1720-1778) esposte a Roma, Palazzo Braschi fino al 15 ottobre, ripercorrono le tappe evolutive del mastro veneziano, in un crescendo che lascia senza fiato. La caratteristica peculiare di questi fogli sta nell’assoluto rigore esecutivo, nel severo addensarsi di linee curve alternate a linee orizzontali verticali e oblique al fine di produrre effetti chiaroscurali variabili secondo l’urgenza. A integrare il gioco segnico interviene, certo interpretando ulteriormente il già variegato lessico grafico, un tratteggio minuto a sostegno di una piu’ approfondita indagine investigativa.                                                                                        .              Architetto e incisore con una discreta preparazione in campo scenografico, Piranesi giunge a Roma nel 1740. Nella città del Grand Tour si respira un clima culturale reso vivace dalla presenza di intellettuali, scrittori, diplomatici, collezionisti e artisti di livello internazionale come il tedesco Anton Rapahael Mengs. A quest’ultimo il Winckelmann, in segno di amicizia e di stima dedicherà il suo libro Storia dell’arte nell’antichità, dedica che sancisce fra l’altro la condivisione di una estetica classica.                                             A dominare la scena è il pittore Giovanni Paolo Pannini, esponente di un vedutismo fantasioso, ma contaminato da una concezione edonistica e baroccheggiante dell’arte.                                                                                         .               Ben altro invece è lo spirito che anima il Piranesi : il suo interesse per le antichità è mosso da un febbrile amore archeologico. All’incisore non interessa far rivivere il passato, ma conoscerlo, analizzarlo per potersene servire senza nostalgia. Con questo sentimento egli guarda alle rovine di cui Roma è un copioso, inesauribile contenitore. Il Piranesi infatti non riproduce in senso letterale ciò che vede, ma lo trasfigura in suggestioni piu’ fantasiose che reali. Si pensi ai ruderi delle Terme di Tito , al Foro di Nerva o alla serie dei Capricci dove, pur non ancora pienamente esplicitata si sente un’interpretazione visionaria. Qui, fra l’altro, la mano dell’incisore, memore ancora dell’arte veneta, simula in modo istintivo la struggente eleganza e “l’argentea  luce” del Canaletto e perfino del Tiepolo.

Ma il progetto più ambizioso e per certi aspetti rivoluzionario è costituito evidentemente dalla serie Carceri d’invenzione. Si tratta di sedici stampe in cui Piranesi, con l’abilità di un acquafortista geniale, traduce le sue fantasie creative in architetture da incubo. Interni tenebrosi e labrintici, caverne, scale elicoidali che non conducono da nessuna parte, pontili sospesi nel vuoto, abissi senza fondo, carrucole, funi, pesanti catene e attrezzi di tortura affollano queste cavità infernali. Tutto ciò è reso ancor piu’ tetro e funesto da un ostinato indugiare sulle ombre, dove al viluppo dei segni affidati al bulino corrispondono ripetute “morsure” per accentuare il contrasto fra il nero dell’inchiostro e il bianco della carta. Qui Piranesi raggiunge il massimo della sua prodigiosa genialità, la cui visione si direbbe illuminista, crea un precedente di quello che sarà il neoclassicismo. Non solo: la serie delle Carceri, visione di un mondo irreale e capolavoro entrato nell’immaginario collettivo, potrebbe avere ispirato perfino Cesare Beccaria che nel 1764 pubblica Dei Delitti e delle Pene, opera aspramente critica sui sistemi barbari con cui a quel tempo venivano trattati i detenuti.

Certo è che l’opera incisoria del Piranesi deve essere letta e interpretata non solo dal punto di vista estetico ma anche come spinta innovativa e risposta all’effimero tutto riccioli e polvere di cipria che ancora permangono tra le pieghe del XVIII secolo.

   Sigfrido Oliva

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