Sembra così perfetta, fatta solo per covarci l’amore. Per il mistero. Per l’assoluto. Eppure ha le occhiaie vuote. Ci si arriva da un viottolo strettissimo. Camminando a spire la casa e la rupe appaiono e ricompaiano sempre più vicine. Dietro un’ultima roccia, quando ci si aspetta la casa, all’improvviso ci si trova invece davanti a una scalinata stretta e fitta che porta a spalancarsi verso il cielo. Simile a una casamatta disertata dopo una guerra dimenticata. Resta lì assimilata ad un aggrappo della roccia del faraglione. Dalla cresta che la sovrasta sembra un polipo sbattuto sullo scoglio dopo una grossa mareggiata, una carcassa composta, ordinata nelle linee, ma già in deliquio, preda già spolpata sino all’inorganico. E’ arresa alla natura, credo sin dal suo concepimento. Il sole la corrode e la arrugginisce, riavviandone la dissoluzione, il suo passaggio verso il fossile, l’abbandono a un riassorbimento primitivo. La scalinata simile a una cresta di ramarro folgorata dal sole, rimane sospesa sul blu a interrogarci sul mare, sul senso del tempo. Ormai nella sua bellezza disfatta eppure rigorosa, ci appare come un’ara per sacrifici che non comprendiamo più, cimelio di un altro luogo, di un altro tempo. Di un’idea di bellezza che pare spirata per sempre dal nostro orizzonte di caos.
L’uomo che la desiderò e la costruì, Kurt Erich Suckert, Curzio Malaparte, rimase come molti affascinato da Capri, dove nel 1936 si era recato a far visita al suo amico Axel Munthe, il magnate svedese, medico e filantropo, che aveva realizzato il suo sogno di luce poco sopra la Scala Fenicia, per anni unico collegamento possibile fra Capri e Anacapri. Una villa magnifica.
La prima volta che venni a Capri era nel 1989. Prima l’avevo vista solo al cinema e in tv l’isola dell’amore. Ero venuto qui per convegno sulla letteratura di viaggio al Sud, ero da solo e non arrivai a vederla la villa di Malaparte. Scrivevo di Gissing, che, allora neanche lo sapevo non avendo letto i suoi diari che un paio d’anni più tardi, lo scrittore vittoriano era stato a Capri nel 1881, all’Hotel Tiberio, dove mi capitò di prendere, per una di quegli incastri che danno il brivido misterioso di uno scherzo del destino, la sua stessa stanza dopo quasi cent’anni dal suo arrivo. Leggevo Benjamin, che da qualche parte ha scritto di aver tenuto tra le braccia l’amante in mezzo ai filari delle vigne capresi. Non avevo ancora trent’anni e quell’immaginazione amorosa.
Lo scrittore Malaparte decise di acquistare da un isolano, Antonio Vuotto, un pezzo di terra per costruirsi una casa sua a Capri, ma lontano da tutti, quasi irraggiungibile. Una casa tra cielo e mare, sul vertice di Punta Masullo. Malaparte amava le isole, era un fanatico dell’illuminazione erotica del Sud, del panico meridiano, come Valery. Già nel 1933 visse da confinato sull’isola di Lipari, con l’accusa di aver svolto attività antifasciste all’estero. A Capri da uomo sensibile alle potenze della natura, alle passioni e al dramma che avvolge le esistenze umane, Malaparte come Tiberio che costruì la sua reggia sulla rupe più alta, scelse lo strapiombo vertiginoso di una roccia a picco sul mare, vicinissima ai faraglioni. La casa fu interamente costruita in muratura dal maestro Adolfo Amitrano. Interamente intonacata è dipinta di un colore rosso sangue, nettamente contrastante dal colore cinereo delle rocce e dal verde cupo della macchia e dei pini marittimi. Anche questa una scelta estetica, d’artista. In previsione dell’aspetto che assumerà il rudere inciso dal trascorrere del tempo e dilavato dagli agenti atmosferici, persino nel caso estremo in cui l’iniziale funzione di dimora, una volta esauritasi, appaia incomprensibile, o che l’edificio stesso venga dal tempo, dall’incuria umana o da eventi naturali ridotto a rovina. La finestra spalancata sul mare dello studio di Malaparte, dove la vista è priva di riferimenti terrestri, mette persino sgomento, la sua unica visione è il mare aperto, sconfinato.
A disegnare la sua casa Malaparte chiamò Adalberto Libera. Libera fece il suo capolavoro: sentì il genus loci, ne esaltò l’ascolto. Ripulì l’architettura da tutti gli orpelli, costringendo la poesia dell’abitare in un luogo così estremo a linee essenziali, di un’arida espressione formale. Una semplice sopraelevazione dal livello del suolo naturale, priva di tetti. La costruzione rinunzia a funzioni e segni effimeri. Si ammassa, si connette, non si erge. La casa resta sotto, e si intende sottomessa del tutto al luogo, alla sua potenza tellurica. Solo un prolungamento artificiale del sito, una forma insediativa primaria. La terrazza è una superficie unica e piatta, dovunque priva di balaustre, le finestre sono incise nei muri a filo. C’è solo la punta di roccia e la casa. Il pungiglione di roccia resta inviolato a fendere la maestà del Tirreno, la casa le si attaglia come un mostro fossile preso all’amo. L’immenso cefalopode predato dalla profondità degli abissi, forse è solo un miraggio abbandonato a disfarsi sulla punta magnifica di questo scoglio, di una bellezza esorbitante, inospitale. Un geroglifico della melanconia, attaccato a uno scoglio di magma, coagulato nel blu del Mediterraneo. di Francesco M.Minervino