Il 16 novembre andrà in onda l’ultima stagione di The Crown, la serie creata dal grande sceneggiatore Peter Morgan che è stata capace, come raramente capita, di mettere d’accordo il pubblico e la critica. In questi giorni, anticipando di poco la messa in onda, abbiamo mandato in libreria il primo testo che analizza la scrittura di The Crown. L’autrice del volume è Giovanna Koch, sceneggiatrice e dirigente della WGI. Ma perché un libro su questa serie? Cosa ha di speciale? La risposta più semplice sta nel fatto che le case regnanti hanno sempre attratto la curiosità popolare, come testimoniano i moltissimi articoli sui giornali o i servizi televisivi.
Ma si potrebbe obiettare che le case regnanti in Europa sono tante e includono paesi, ad esempio come la Spagna, anche più vicini a noi culturalmente. Perché dunque proprio Elisabetta? Facciamo un passo indietro. Noi crediamo che dietro qualsiasi grande successo popolare cinematografico ci sia sempre la capacità di far sentire agli spettatori che quella storia parla in qualche modo di loro, di problemi e di scelte che li riguardano, che li coinvolgono e da cui possono imparare qualcosa. Ecco, a noi sembra che The Crown non racconti solo i problemi di una regina, in questo caso Elisabetta e la sua corte, perché francamente cosa ce ne importerebbe delle sofferenze di Felipe di Spagna o dei sovrani del Belgio o di Svezia? No, in The Crown – per come Peter Morgan ha creato la serie – la corona rappresenta il peso dal quale Elisabetta e tutti noi possiamo essere schiacciati quando ci investe una responsabilità che temiamo di non essere in grado di sopportare. A meno di non tradire noi stessi e ciò che siamo; o al contrario, a meno di restare ciò che siamo sempre stati, ignorando le nuove responsabilità.
La nostra ipotesi è che a farci diventare fan della serie sia il fatto che problema di Elisabetta è: riuscirò a restare me stessa e al tempo stesso a portare sulle spalle questa enorme responsabilità che mi è capitata? Peraltro lo stesso con cui tutti i personaggi principali della serie si confrontano: Filippo, quando accetta di rinunciare al suo cognome e ai suoi titoli per diventare il semplice consorte della moglie regina e al tempo stesso pretende di continuare a essere quell’uomo libero, affascinante e seducente, dalla carriera militare brillante. O Margaret, che rifiuta il peso dell’essere principessa per continuare a fare le sue scelte – soprattutto sentimentali ma anche comportamentali – come se non avesse un ruolo istituzionale da onorare. O, sul fronte opposto, Winston Churchill, che teorizza e pratica sulla propria pelle la necessità di scomparire come individuo con i propri problemi per salvaguardare la figura pubblica che un Primo Ministro deve sempre mettere al primo posto a qualunque costo. Questo, secondo noi, è l’interrogativo profondo che attraversa la serie rendendocela così vicina: ciascuno di noi nella vita ha dovuto portare il peso di una responsabilità (potenzialmente soverchiante) e non sempre ha saputo restare in equilibrio, assumendo la responsabilità del ruolo e, al contempo, corrispondendo alla propria identità quello che ognuno di noi le deve. Quando siamo diventati coniugi rinunciando alla nostra libertà, quando siamo diventati genitori dovendoci confrontare con il gestire un’altra esistenza o quando siamo stati promossi a un incarico che ci ha resi immediatamente diversi dai colleghi con cui ci misuravamo paritariamente fino al giorno prima e così via. Ciascuno di noi ha dovuto sopportare il peso della propria corona tentando di mantenere la propria essenza. Questo il dramma di Elisabetta così come il nostro, ciascuno al suo livello.