Queste poesie emergono dai misteri del lontano tredicesimo e quattordicesimo secolo. Sono scritte in volgare neerlandese nella variante brabantina e sono un capolavoro della teologia femminile, emozionanti nella libera espressione di donne che amano Dio.
Le poesie qui tradotte fanno parte di una collezione mista. Le prime sedici vengono considerate opere autentiche di una grande mistica che esortava le beghine a vivere per la minne, il nobile Amore, metafora della relazione tra amanti e con Dio. Le beghine erano religiose delle regioni del Brabante e della diocesi di Liegi.
Gli studiosi l’hanno chiamata Pseudo-Hadewijch o Hadewijch II per la parentela con i testi della poetessa e mistica Hadewijch d’Anversa. Si tratta di un “capolavoro della teologia in lingua materna”, scrive Luisa Muraro nella presentazione, il modo in cui Dio ha trovato “una nuova epifania nella libera espressione di un’esperienza di donne che da lui si autorizzavano a parlare, a tacere, a leggere e a scrivere”.
Ci si chiede perché queste donne abbiano scelto di scrivere in volgare. Forse perché conoscevano poco il latino? Può essere, ma secondo uno studioso di letteratura nerlandese, Fedez Van Nostrum, la motivazione è ben più profonda. Scrivere in volgare era una scelta dettata non tanto dalla necessità quanto dalla libertà e dal desiderio di contestare la tradizione, un salto verso la libertà, vzerso un luogo libero dove poter esprimere l’amore disinteressato.
I paradossi dell’amore sono una sequenza di norme tradizionali di saggezza: “Praticare il giusto mezzo/significa vita felice/ci dicono i saggi/Ma ogni mezzo deve cadere/Prima di poterci unire/Alla Nobile Bontà”
Praticare il giusto mezzo non serve se ci si vuole unire all’amore in modo diretto e totale, senza intermediari, verso la contemplazione libera, nella nudità: l’anima è liberata, nuda per andare nella mancanza e ricevere nella mancanza.
Anna Maria De Luca