Il pensiero immateriale e la materialità scultorea, il senso effimero dell’esistenza e l’esaltazione dell’oblio della grandezza. Dal 27 ottobre al 25 novembre, Gregorio Botta espone a Palazzo Te una serie di installazioni dedicate al flusso del tempo, all’idea di perdita e di impermanenza.
La mostra, a cura di Lóránd Hegyi, direttore del museo di Saint- Etienne, è un percorso a tappe ispirato dalla tomba di John Keats nel cimitero acattolico di Roma. Sulla sua lapide il poeta romantico inglese volle che fosse scritto “here lies one whose name was writ in water” (qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua): Keats volle escludere il proprio nome, come ad accettare e anticipare il lavoro del tempo che avrebbe offuscato la sua memoria.
Il tempo in realtà ha nobilitato il suo ricordo, ma il gesto di cancellare la propria identità rende la stessa tomba un’opera d’arte. Nel cortile di Palazzo Te, nove grandi lastre di piombo giacciono a terra e su ognuna di esse è incisa una parola della lapide di Keats: dalle lettere scorrono rivoli d’acqua, come lacrime, come ferite e come sorgenti fertili di vita. Insieme fiori letali e fonti di rinascita. Davanti all’ingresso della sala espositiva Gregorio Botta presenta due sculture – a forma di piccole case, o di antichi larari romani – che si contrappongono, identiche: nella prima, un altoparlante trasmette brani di una poesia di Keats recitata dall’attore Lorenzo Gioielli e nella seconda un libro con le pagine bianche è agitato da un vento instancabile. All’interno, tra le altre opere, una scrivania sul cui piano scorre dell’acqua, ad evocare l’imperrnanenza del nostro passaggio sulla terra, un video in cui una mano sconosciuta scrive sull’acqua, e infine il più misterioso dei suoi lavori: una fonte di acqua nera – come inchiostro – al cui centro appare e scompare un cerchio, scritto da forze ignote, fonte dell’ispirazione, del rapporto con il profondo che – malgrado tutto – costringe a fare arte.