Sullo scorcio del Duecento, in una Fiorenza in crisi di trasformazione, industriosa e violenta, che inghiotte il passato come la fabbrica di Santa Maria del Fiore inghiotte la vetusta Santa Reparata, quattro adolescenti intraprendono la rischiosa avventura di diventare adulti. Forze inarrestabili stravolgeranno i loro destini, tracciati fin dalla nascita dai padri, e la vita dei quattro giovani percorrerà sentieri insospettati fino a sfociare in tragedia, nella città dilaniata dalle lotte tra i guelfi Bianchi e Neri.
Il romanzo, insieme a un’accurata ricostruzione di scenari e abitudini della Firenze basso-medievale, propone riflessioni che non conoscono tempo sui meandri, a volte molto contorti, dei sentimenti, sulle oscure fonti della violenza e della creatività e sull’impossibile possesso della verità; riflessioni che si azzardano anche nello spinoso territorio del sacro alla ricerca di globalità, di umana completezza
Intervista a Gladis Alicia Pereyra, la scrittrice argentina con il cuore italiano
Qual è il tuo rapporto con l’Italia?
E’ un rapporto d’amore. Un innamoramento infantile trasmesso da mia nonna materna che era lombarda, trasformatosi più tardi in amore. L’Italia possiede in larghissima misura tutto ciò che fa parte dei miei principali interessi: millenni di storia, di cultura, d’arte, una bellissima lingua e il genio che ha fatto possibile tutto questo. Vivo a Roma da tanti anni, non potrei vivere da nessun’altra parte; spesso scherzando con gli amici romani dico di essere più romana di loro perché loro lo sono per nascita e io per scelta. E proprio perché mi sento completamente identificata con questo paese condivido la preoccupazione di tanti italiani per il momento non proprio roseo per la cultura che stiamo attraversando.
Il tuo Il cammino e il pellegrino ha avuto una storia editoriale diciamo complessa: vuoi raccontarcela?
“Il cammino e il pellegrino” ha avuto la storia editoriale che, penso, abbiano tutti i romanzi giudicati non commerciali dagli editori. Vorrei sfatare, però, un luogo comune: non è vero che i manoscritti degli esordienti non vengano letti, almeno le grandi case editrici, se credono che possano essere interessanti, li leggono; ragione per cui chiedono di anticipare i contenuti in una sinossi. Tornando al mio romanzo, è stato rifiutato per le cause più disparate, spesso contraddittorie; un editore ha ritenuto che era solo bella lingua e che di storia non parlava un granché; un altro, invece, lo ha respinto perché l’aspetto storico prevaleva sulla narrazione, da un altro ho appreso che la bella prosa è segno del provincialismo italiano. Ci sono state anche delle risposte più serie, una casa editrice in una lettera ha accuratamente motivato la decisione di non accogliere il mio libro nelle proprie collane, un’altra al posto del consueto “molto interessante ma non rientra nei nostri piani editoriali” mi ha risposto chiaro e tondo che, nonostante le qualità letterarie del romanzo, non ne vedeva alcuna collocazione sul mercato. Ormai mi ero rassegnata ha lasciare il manoscritto nel cassetto, quando leggendo un articolo sull’editoria ho scoperto la Piero Manni -piccola e raffinata casa editrice, così assicurava l’articolo- e ho fatto un nuovo tentativo, questa volta con successo. Malgrado i primi fallimenti presso le case editrici, il manoscritto mi ha dato non piccole soddisfazioni: alcuni scrittori tra cui Pietro Citati, Daniel Chavarria, Giovanna Querci Favini lo hanno giudicato positivamente ed è stato finalista del Premio Letterario all’Inedito Palazzo al Bosco.
Quanta ricerca storiografica c’è dietro questo romanzo? E perché proprio il Medioevo?
La ricerca mi ha portato alcuni anni, ho una lunghissima bibliografia. Per la ricostruzione urbanistica della Firenze medievale mi sono valsa delle cronache dell’epoca e di una cartina ricavata nel Novecento da un catasto del XV secolo. Oltre alla parte storica del Comune, mi premeva ricostruire il quotidiano dei personaggi, devo dire che è stata la parte più interessante, ho consultato libri di cucina, i Consiglia di Taddeo Alderotti, i cronisti, moralisti come Francesco da Barberino, poeti, Guido Cavalcanti soprattutto, il Davidsohn e, ovviamente, Dante e l’Enciclopedia Dantesca tra tanti altri. L’idea originaria era raccontare la storia di una mistica. In quel periodo mi interessavo molto alla storia delle religioni e Il libro dell’esperienza di Angela da Foligno mi aveva affascinata. Era mia intenzione ambientare la vicenda in una città non identificata e nello stesso secolo di Angela, così ho cominciato la ricerca prendendo come riferimento Firenze e vi sono rimasta intrappolata. Il XIII secolo è stato un periodo di enorme ricchezza a ogni livello. Prima parlavo del genio italiano, credo che mai prima di allora si fosse a tal punto manifestato. C’era un tale fermento, una tale energia creativa che facevano di Fiorenza una delle più importati città europee; non dimentichiamo che il fiorino d’oro era un po’ l’euro dell’epoca e che i banchieri fiorentini finanziavano i re e persino il papa. Fiorenza aveva più abitanti di Parigi e il doppio di Londra. Era anche un tempo di grandi sconvolgimenti socio – politici con una sequela di sangue, incendi e distruzioni che, tuttavia, non fermavano la fioritura delle arti, della letteratura, dell’artigianato, del commercio. In quell’epoca affondano le radici della modernità.
Al centro della vicenda ci sono forti passioni: l’odio, la violenza, il dolore, ma soprattutto l’amore. Giudichi riduttivo definire Il cammino e il pellegrino innanzitutto una storia d’amore?
Difficile rispondere a questa domanda. Nel romanzo ho tentato d’indagare nei sentimenti, nelle pulsioni che agitano l’animo umano, indipendentemente dal periodo storico. Nel medioevo i freni inibitori dell’istinto erano più deboli e c’era una diversa concezione del bene e del male di quella odierna per questo le passioni venivano fuori con violenza a volte devastante, non che oggi non abbiano la stessa virulenza se lasciate libere di agire, basta leggere la cronaca, solo che oggi i freni della coscienza sono maggiori. Penso che l’amore sia la più potente remora agli istinti peggiori. Senza l’amore forse l’umanità si sarebbe autodistrutta. Detto questo, è probabile che il mio romanzo possa essere letto come una storia d’amore, ma le mie intenzioni andavano molto più in là; l’amore era soltanto un aspetto.
Sei d’accordo con chi ha fatto notare che il tuo sguardo su Firenze e sull’Italia è più sereno proprio perché sei straniera?
Non sono del tutto straniera, metà dei miei geni sono lombardi da generazioni; di là di questo, penso che persino un fiorentino si sentirebbe un po’ straniero nella Fiorenza del XIII secolo e ne rimarrebbe affascinato come me, solo che in lui scatterebbe l’orgoglio che in me manca. D’altra parte il mio sguardo non è sempre sereno, a momenti è appassionato, soprattutto nei tre primi capitoli dove non mi limito a raccontare Fiorenza, ma in qualche modo le rendo omaggio. Non escludo, però, che possa agire su di me il potere di attrazione che Firenze e l’Italia in generale esercitano sugli stranieri, di cui non tutti gli italiani sono consapevoli; non dobbiamo dimenticare il ruolo della cultura italiana nello sviluppo della cultura occidentale. Uno storico della Firenze medievale, cui è impossibile non fare riferimento, è un tedesco: Robert Davidsohn.